Vestiti spogli

Apro l’armadio, ricerco un tessuto con il quale coprirmi. Lo trovo, lo indosso e ricerco comodità.

Mi guardo allo specchio e mi giudico sulla base del riflesso e lo faccio con le opinioni che penso che gli altri potranno avere su di me.

Mi piaccio e sono comodo. Anzi no, mi cambio.

Ricerco una soluzione alla mia corporeità che non si adatta ai tessuti o agli stessi che non si adattano alla corporeità.

Sicurezza e distruzione.

Uno dei primi bisogni umani è quello di vestirsi, un gesto semplice e contemporaneamente complesso.

Cosa significa letteralmente? Ricopriamo il nostro corpo con dei materiali che sono in grado di rimanere in equilibrio adagiandosi su specifiche porzioni di organismo senza intralciare i nostri movimenti. Alcuni sono unici e ricoprono interamente la nostra persona fisica, altri sono in grado di lasciare scoperte alcune parti della stessa.  

L’atto del vestirsi è paragonabile emotivamente all’entrare in una stanza di specchi: infiliamo un tessuto che assume una forma e un colore del tutto unico e singolare, con l’unica versione reale ed esistente di noi stessi, che corrisponde al nostro corpo, ma al contempo indossiamo anche dei vestiti intangibili, formati da comunicazione pura: sulla base della forma, dell’armonia cromatica e dell’ordine pensiamo di offrirci come prodotto selezionato, pronto a piacere.

Stop, fermati. Tu che leggi, seguimi: esci dal reale e guardati in terza persona. Pensa all’ultima volta che hai varcato la soglia della tua abitazione per immergerti nella socialità. Guardati uscire di casa e camminare in mezzo agli altri: non lo noti anche tu? Viviamo in un mondo costruito sui vestiti.

L’assurdità più grande è che a partire dagli stessi indumenti costruiamo identikit di personalità “a scatola chiusa” senza nemmeno aver conosciuto l’individuo che ci apprestiamo a giudicare. La cosa ancora più impressionante è che non ci rendiamo conto di non essere nemmeno noi stessi i genitori delle opinioni, ma è la società mascherata di perfezione che si è innestata al posto della nostra capacità critica a farci riconoscere chi si è meglio o peggio omologato alla moda temporanea. Uno dei modi per dimostrarlo è guardare filmati o immagini di esseri umani vestiti di epoche passate, risulta spontaneo schernirli sulla base del condizionamento societario in cui si vive.

Insicurezza e autodistruzione.

Ci siamo dimenticati col tempo che di fronte al bisogno di vestirsi si schiera quello di spogliarsi e di essere nudi: la nudità sociale è stata lentamente accantonata per lasciare spazio al disagio ghirlandato. Un disagio quasi esistenziale che porta a commettere delle azioni assurde come il chiudersi sul cellulare o il gesticolare imbarazzati.

Perciò spogliamoci. Fisicamente, davanti allo specchio: non ricerchiamo pose in cui risultiamo più gradevoli ma guardiamo i nostri difetti o, ancor meglio, quelli che pensiamo di avere. E lì nudi ad osservarci, spogliamoci emotivamente. Per troppo tempo abbiamo lasciato che gli altri decidessero per noi cosa indossare, lasciamo cadere a terra quegli indumenti e riscopriamo il piacere dell’imprinting con nuovi tessuti e colori.

In conclusione: per chi scrive, caro lettore, la vita è troppo breve per lasciarsi vestire dalla società come si lasciano vestire i bambini quando escono dalla piscina, d’inverno.

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