Piacersi significa essere qualcosa o significa compiere un’azione? Questa domanda si riferisce ad alcuni “rimedi verbali” che spesso le persone che abbiamo intorno ci somministrano nei momenti di sconforto fisico e di non accettazione di ciò che siamo. Essi prevedono – nella maggior parte dei casi – l’attivarsi per ricercare una serenità perduta apparentemente e immedesimarsi in un essere che si accetta o che compie un’azione pratica o spirituale per riuscirci. “Tu devi piacerti”, “ma che dici, tu stai benissimo”, “guardati, sei meraviglioso” e altre proposizioni sicuramente confortanti per chi le dice, soluzione tampone per chi le riceve.
Forse sono proprio i momenti di crisi personale, quelli in cui rigettiamo ciò che siamo nel corpo cercando paragoni per autodemolirci, quelli in cui dovremmo smettere di compiere azioni: non guardarci allo specchio, non cambiarci molte volte indumenti avvertendo una sensazione di scomodità nervosa, non adirarci e non reagire impulsivamente e compiere la più semplice delle azioni. Goderci.
Godere di ciò che siamo, della fortuna dell’unicità e della ricchezza del nostro essere singoli, non imitabili. Pezzi unici.