Quando si pensa a noi stessi, lo si deve fare nell’ottica di soggetti facenti parte di un gruppo. Il gruppo è la comunità umana, ricca di diversità di ogni genere: le diversità naturali che ci distinguono e ci rendono unici al mondo sono differenti in base a dove siamo nati e l’ambiente in cui siamo cresciuti. Questo porta l’essere umano che ha popolato la moeder aarde (che in Afrikaans significa “madre Terra”) ad aver assunto fisionomie, usi, rituali, tradizioni e colori di un’eterogeneità infinita, come le infinte personalità della comunità umana. Gli individui si sono però sempre identificati e conformati con le caratteristiche della propria tribù, creando territori e popolazioni. Quello che stiamo vivendo oggi è una rivoluzione sociale: ci stiamo confondendo, stiamo scambiando l’identificarci con il conformarci: personalmente vedo l’identificazione come il sentirsi parte attiva di un gruppo senza dover essere obbligati a modificare “ciò che si è”, mentre invece il conformarsi è differente – e sempre più diffuso – in quanto prevede necessariamente il “con-formarsi”, inteso nell’accezione del “prendere la forma” senza possibili alternative.
Ma per chi sono?
Questa domanda me la sono posta diverse volte. Tutto ciò che faccio, i social, le abitudini, gli atteggiamenti nei confronti degli altri e ciò che acquisto: per chi lo sto facendo?
Ho necessità di sacrificare la mia identità? Perché devo farlo?
Secondo me la risposta che ci si dà a questo quesito rispecchia il nostro istinto di autoconservazione e di permanenza nella zona di comodità: pensiamo che per vivere meglio e in pace sia più conveniente essere osservati e riconosciuti come categoria facente parte della socialità e preferiamo questa tranquillità “vetrina” alla serenità reale, quella serenità che ci riconcilia, molto più scomoda e complessa da ricercare.
Non si scambi ciò che dico come un giudizio, chi scrive in primis sente la forte influenza della società e spesso è indeciso sul come comportarsi. È piuttosto un’analisi lucida di una fragilità umana, di una rincorsa che si sta facendo sempre più affannosa verso i modelli commerciali in costante mutamento. E questo rincorrere la similitudine ai modelli ha fortissime ripercussioni sul corpo e sui nostri movimenti, che decoriamo con elementi non decisi da noi, ma che preleviamo da un contenitore temporaneo preconfezionato.
Non si deve pensare solamente ai vestiti o a certe abitudini, ciò che spaventa di più è l’omologazione degli atteggiamenti e delle emozioni. Questo genere di omologazione penso che derivi dal bombardamento di immagini brevi a cui siamo sottoposti ogni giorno che cancella totalmente l’empatia umana pura, sostituendola con una fittizia che dura pochi istanti. Come conseguenza sappiamo esattamente i gesti che dobbiamo compiere, i movimenti che sono concessi e persino come dobbiamo esprimere i nostri sentimenti e come comunicarli tramite il corpo.
Un consiglio pratico, un piccolo esercizio di autenticità: quando vi state preparando per uscire o mentre siete immersi nella socialità, prestate attenzione a ciò che fate. Provate ad accorgervi di ogni minimo gesto o movimento. Osservatevi sugli altri o sui riflessi.
Poi fermatevi e chiedetevi:
Ma io, per chi sono?